Champions League, cinque tecnici tedeschi e cinque italiani agli ottavi
Quella tra Germania e Italia è una sfida che nel mondo del calcio si è riproposta più volte. Sia per quanto riguarda l'ambito dei Mondiali, con la vittoria degli azzurri per 4-3 nelle semifinali di Messico '70 e il trionfo in finale a Spagna '82, sia per gli svariati confronti tra squadre di Bundesliga e Serie A nelle coppe europee.
Il quadro delle qualificate agli ottavi di Champions League, tuttavia, presenta una peculiarità ben precisa. Anzi, due. Gli allenatori nati in questi due paesi hanno praticamente quasi tutti fatto centro, eccezion fatta per Mathias Jaissle del Salisburgo e Massimiliano Allegri, retrocesso in Europa League con la Juventus. Sono infatti ben cinque i tecnici teutonici approdati alla fase successiva. Dagli 'emigrati' Roger Schmit e Jurgen Klopp, che guidano il Benfica e il Liverpool, si passa ai tecnici che allenano le squadre locali, ossia Julian Nagelsmann (Bayern), Marco Rose (Lipsia) ed Edin Terzic (Borussia Dortmund).
Lo stesso discorso può essere fatto per gli italiani, con Antonio Conte e Carlo Ancelotti come illustri 'stranieri' al comando di Tottenham e Real Madrid e gli 'autoctoni' Simone Inzaghi (Inter), Luciano Spalletti (Napoli) e Stefano Pioli (Milan). Un attestato di grande concretezza per entrambe le scuole di pensiero, che però differiscono per l'approccio.
In Germania, infatti, dall'inizio degli anni 2000 è stata impostata una rivoluzione tattica, alla quale è seguita quella tecnica. Memorabile quel viaggio a inizio millennio di Jurgen Klinsmann e Joachim Löw a Buenos Aires per avere un incontro rivoluzionario con Cesar Luis Menotti. Quest'ultimo, che aveva allenato l'ex attaccante alla Sampdoria nel 1997, diede precise istruzioni tattiche per migliorare il possesso palla, un'arma che in Germania raramente avevano usato, ma non solo. Il movimento costante dei calciatori era un altro dei fondamenti del gioco predicato dall'argentino campione del mondo nel '78. Nato a Rosario, come Ernesto Guevara de la Serna, per tutti conosciuto come 'El Che', Menotti fu a suo modo un rivoluzionario del calcio, arrivando a contagiare alcuni dei suoi ex giocatori. Il tutto, si combinò nel paese teutonico con la formazione di nuove generazioni frutto dell'integrazione delle tante famiglie straniere andate a vivere in Germania a partire dagli anni '70. Una circostanza che ha favorito lo spalancarsi dei portoni della mentalità e la caduta dei pregiudizi verso gli stranieri.
Quel blitz di Klinsmann portò nuove idee a tutta la Germania del pallone, con il suo allievo Löw pronto a raccogliere il testimone con la nazionale. Nel frattempo, dopo l'arrivo di un esteta come Pep Guardiola, l'intera Bundesliga si arricchì di nuovi concetti e nuove motivazioni tattiche. E come antitesi al tiqui-taca del catalano venne fuori quasi naturalmente il gegenpressing di Klopp, quel contro pressing che avrebbe fatto le fortune prima del Borussia Dortmund e poi del Liverpool, i cui exploit europei sono ben noti.
In Italia, luogo più vincolato alle tradizioni, queste idee non hanno mai attecchito, vuoi per l'assenza di un'ampiezza culturale, vuoi per la costante idea che il Made in Italy alla fine ha sempre la meglio. Mai prima di ieri, tuttavia, l'Italia aveva visto cinque allenatori prodotti della sua scuola arrivare alla seconda fase di Champions. Se Ancelotti rispecchia in sé l'archetipo del leader calmo attorniato da campioni, ma capace di gestirli come nessun altro, Conte è il motivatore furioso che non sopporta errori e riesce a fare le nozze con i fichi secchi. Poche idee tattiche di rilievo, ma solide.
Spalletti, dal canto suo, è un profilo ibrido tra l'esteta che ama palleggiare e l'amante del calcio diretto, e nonostante una carriera con pochi acuti dal punto di vista dei titoli è rimasto sempre sul pezzo e continua dare un' identità ben precisa alle sue squadre. Pioli e Inzaghi, meno esperti in campo internazionale ma su panchine importanti, stanno invece muovendo i primi passi, e in qualche modo hanno fatto capire di essersi adattati al palcoscenico importante della Champions, riuscendo a gestire situazioni non semplici.
Di certo c'è che l'età media va a favore dei tedeschi, che hanno in Nageslmann (35) un enfant prodige capace di bruciare le tappe e già allenatore di una realtà emblematica come il Bayern. La sua investitura è stata simbolo del fatto che, nonostante tutto, in Germania sono già proiettati al futuro. Dare carta bianca a chi ha idee nuove ma non è stato un calciatore di successo rappresenta un coraggioso salto nella mente e negli intenti, ed è anche la prima grande differenza tra queste due scuole.