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Gli occhi dolci di Raspadori, o il trionfo all'Allianz del Napoli multicolore

Antonio Moschella
Il Napoli festeggia il gol di Raspadori
Il Napoli festeggia il gol di RaspadoriAFP
L'acuto dell'emiliano è la sintesi della perfetta armonia di una squadra che sta concludendo una cavalcata trionfale forte di una coesione culturale unica, nonostante la quasi assoluta assenza di rappresentanti del territorio

Non ci ha pensato due volte Giacomo da Reggio Emilia, quando il pallone arrivato dalla destra si è posato nell'indefinito ed etereo spicchio d'aria che lui ha dovuto riempire per forza di cose con il sinistro, il suo piede debole. Poi, il botto, e la palla calciata di prima intenzione da Raspadori che bucava lo schermo tra le gambe di Szczęsny, finendo il suo percorso nella rete. L'esplosione di gioia di giocatori, staff e tifosi del Napoli, diventati tutt'uno dopo un agone di quelli che lasciano il segno. Di quelli che cambiano nei minuti che intercorrono tra il gol annullato a Di Maria e la scelta del Var. Oppure nei secondi che passano dal tuffo di Cuadrado al gol dell'ex Sassuolo, lasciato libero in area proprio dallo svogliato colombiano, l'emblema dell'arrendevolezza di una Juventus che quest'anno con gli azzurri proprio non è mai riuscita ad andare a dama.

Ma il centro di Raspadori, uno dei meno in forma e, di conseguenza, dei meno attesi, che vale la vittoria in casa di Madama permettendo agli azzurri di dare un passo decisivo verso la conquista del titolo non è solo la griffe finale. Bensì è la culminazione di un'opera d'arte che ha in Luciano Spalletti l'artista plastico, a metà tra il classico e il moderno, e in tutti i suoi giocatori gli elementi malleabili le cui paste si sono perfettamente assimilate l'un l'altra per venire plasmate in un capolavoro. Un capolavoro dal punto di vista del gioco sublimato dalle enormi emozioni che solo una 'bellissima perdente' come la squadra azzurra poteva esprimere a squarciagola. La componente unica di questo Napoli che si avvicina al suo terzo titolo, però, è quella dell'assenza di un solido rappresentante del territorio.

Babele azzurra

Giacomo Raspadori
Giacomo RaspadoriAFP

Quella 'Terra mia' che Pino Daniele cantava sette prima dell'arrivo di Diego Armando Maradona nell'estate del 1984, è oggi nuovamente in fermento per la grande bellezza che sprigiona un Napoli più forte di tante realtà con un portafogli più gonfio ma non per questo più attraenti. Ribelle ma sicura di sé, la truppa azzurra ha avuto nei suoi modi di fare eleganti quel quid in più che le ha permesso di farsi apprezzare persino in Europa. Il tutto in una Babele composta da persone provenienti da quattro continenti diversi, i quali si sono compresi l'un l'altro attraverso la koiné del bel gioco, esemplificato ieri sera in un virtuoso dialogo stretto tra Elmas e capitan Di Lorenzo il cui esito era il palo colpito da Osimhen.

In questa Babele azzurra, l'eccezione è proprio il napoletano, almeno per quanto riguarda lo spogliatoio, dove i partenopei sono rappresentati solo dal terzo portiere Marfella e dal centrocampista Gaetano, nati a Napoli ma quasi mai apparsi in campo in questa stagione. Qualcosa di totalmente diverso dalle altre annate storiche degli anni '80, quando gente come Beppe Bruscolotti, Ciro Ferrara o Ciro Muro. Dal coreano di Kim allo spagnolo con accento messicano di Lozano intercorrono 17 ore di volo lungo il Pacifico e un'infinità di varianti culturali. Varianti, queste, immerse nel calderone esplosivo del Vesuvio, alle pendici del quale un toscano venuto da Empoli senza troppe pretese è diventato capitano. Proprio come un argentino arrivato nel 1984, quando quella 'Terra mia' risuonava nel cuore di un popolo ignaro che sarebbe cominciata una rivoluzione oggi ormai vicina al terzo atto. Un atto ispirato dagli occhi dolci di un emiliano emigrato al contrario, che con il suo sinistro al volo sfoggiato a occhi chiusi è diventato anche lui un partenopeo. Per sempre.